TESTIMONIANZE

Testimonianze gioco d’azzardo patologico

La dipendenza da gioco d’azzardo cresce, si sviluppa e intacca ogni aspetto della persona colpita, portandola progressivamente sia a perdere ingenti somme di denaro, sia a lasciare in disparte la propria persona, gli affetti, il lavoro e tutto ciò che le sta attorno, voltando così le spalle alla vita stessa.
Il dolore che si prova è una drammatica combinazione tra sensi di colpa e un senso di frustrazione per non riuscire a controllare il “mostro” che divora e rende vana ogni speranza e sforzo di risalita.

Qui seguono quindici storie di vita vissuta, quindici storie di persone cadute in un baratro senza fine dove la dipendenza li ha spinti fino a perdere tutto. Racconti di persone che hanno avuto la forza di rialzarsi, il coraggio di vedere oltre il buio e di affrontare il loro dolore giorno dopo giorno fino a sconfiggerlo.

1° STORIA

Testimonianza di Andrea:

Andrea, 45 anni, ha rilasciato questa intervista immediatamente dopo essere entrato in trattamento presso il centro di recupero per giocatori patologici di Bolzano. Ecco come la racconta:

“La prima volta che entrai in un casinò è stato circa dieci, dodici anni fa. Ero con mia moglie ed alcuni amici. Ci andammo più che altro per curiosità, perché rappresentava una novità. E per vincere. Il casinò mi piacque fin da subito, ma non rimasi “agganciato” sin dalla prima volta, anche se, in tutta onestà, devo dire che non ci volle molto. Dopo esserci tornato alcune volte assieme ad amici, iniziai a poco a poco a frequentarlo da solo. Non ricordo esattamente la prima volta in cui misi piede da solo in un casinò. So solo che vi entrai per vincere. Non m’interessava l’emozione che il gioco poteva procurarmi. Io volevo solo i soldi e da questo punto di vista, non è cambiato nulla tra la prima e l’ultima volta che vi sono entrato. Sì ho anche vinto, ma sono state vittorie effimere, di breve durata, perché nelle due o tre volte successive me le sono giocate tutte. Una volta riuscii ad ottenere una vittoria davvero consistente, sessanta milioni. Il mio primo pensiero, in quell’occasione, fu “Speriamo di vincere ancora!”. Certo ero contento di aver vinto, ma non ricordo di aver provato un’eccitazione particolare o uno stato di euforia: in fin dei conti, ne avevo già persi talmente tanti, che in quel modo avevo solo recuperato parte delle mie perdite. Oggi, col senno di poi, posso affermare che il gioco d’azzardo rappresentava già allora un problema per me, mi aveva già “preso”. La mia fortuna era che avevo ancora buona disponibilità economica, avevo soldi a sufficienza per permettermi di giocare tanto. Ma col tempo, ho iniziato a perdere, a perdere veramente tanto e sentivo la rabbia che mi saliva, una rabbia dovuta al fatto che non riuscivo a vincere. Io giocavo alla roulette e, ad un certo punto, iniziai a giocare per rifarmi. La speranza di rifarmi era fortissima, anche quando perdevo. Ad un certo punto, uscendo dal casinò, dopo che avevo naturalmente perso, iniziai a promettere a me stesso: “Basta! Adesso smetto, non ci vado più, non voglio metterci più piede!”. Ma immancabilmente, il giorno seguente ero di nuovo lì, convinto che mi sarei rifatto. C’era evidentemente qualcosa che non funzionava, anche se non so spiegare cosa. Con la stessa convinzione con la quale mi dicevo alla sera che non ci sarei mai più tornato, il giorno seguente mi dicevo che avrei vinto tutto. Era incredibile: mai una volta che andando al casinò dicessi che era l’ultima. Quello era un ragionamento riservato solo al momento in cui tornavo a casa. Quando perdevo, attribuivo la colpa a questo, a quello, ma sapevo che non c’era una colpa. Si sa che i casinò sono lì per fare soldi e, ragionando razionalmente, si sa anche che è difficile vincere. Ecco, diciamo che la colpa era della sfortuna. È ovvio che quando vincevo, il merito era solo della fortuna: io non mi attribuivo abilità particolari quando vincevo, così come non davo la colpa, come invece molti fanno, agli impiegati o al croupier quando perdevo. In famiglia, intanto, c’erano problemi grossi ed evidenti. Inutile negarlo, il gioco ha sempre dato problemi di convivenza in famiglia. Capitava che io partissi senza preavviso per andare a giocare e questo provocava reazioni anche abbastanza forti da parte dei miei familiari. C’erano poi problemi riflessi anche sulle mie figlie, che pur non essendo mai intervenute direttamente nelle mie faccende, hanno senz’altro subito delle conseguenze negative. Io mi giustificavo dicendo che, in fondo, i soldi li guadagnavo io in famiglia e che comunque non mancava niente. Fino al giorno in cui mi sono trovato senza i soldi per pagare le tasse e ho deciso che era ora di metterci un freno, di dire basta. Di bugie ne avevo raccontate tante, anche se poi sono tutte venute a galla. Ad esempio, dicevo che andavo in ufficio, mentre invece riuscivo ad andare al casinò e ritornare per tempo, dicevo che andavo al bar o a trovare degli amici, e invece andavo al casinò. Diciamo che io vedevo il gioco come un divertimento, nel quale avevo la possibilità di vincere. Il problema economico si è evidenziato solo recentemente, quando ho esaurito le risorse. Allora ho chiesto aiuto a mia moglie, le ho spiegato l’intera situazione, le ho detto che ero disperato, che non sapevo come fare, di aiutarmi. Devo dire che la sua risposta è stata abbastanza sorprendente. Mi disse: “Io non ho gli strumenti per aiutarti, bisognerà andare da qualcuno che lo possa fare veramente”. La sua risposta mi aveva un po’ deluso, perché io pensavo che fosse lei la persona più adatta ad aiutarmi, mi aspettavo un aiuto anche morale, affettivo e poi trovare assieme la soluzione ai problemi economici, magari vendendo qualcosa. Comunque, lei mi disse che ce l’avremmo fatta lo stesso, che avremmo tentato ancora, che dovevamo cercare di farcela. Fu allora che presi la decisione di affidarle le mie carte di credito ed il bancomat: in mano mia sarebbero stati deleteri. Per fortuna ha funzionato. Ha fatto tutto lei. È stata lei che è venuta a conoscenza dell’esistenza di questo centro, è stata lei che ha preso contatto e sempre lei ha organizzato la trasferta fin qua. Forse, io non sentivo tanto l’esigenza di contattare un centro del genere. Secondo me, la decisione importante l’ho fatta prima di venire qua, affidandole il bancomat e le carte di credito: quella è stata la mossa vincente, senz’altro, ma l’avevo messa in atto già prima di venire qua. Certo, il centro può anche essere utile, però io non è che abbia molta fiducia negli altri, o meglio, penso che l’aiuto maggiore possa derivarmi da mia moglie e dai farmaci per tirarmi su. Io ero già convinto che questa fosse una malattia, un vizio, sì, vizio, malattia, è lo stesso. Io la vedevo così. Era un aspetto negativo della mia vita, ma ero impossibilitato a rinunciarvi, mancava la forza di volontà per dire “basta”. Questa è la seconda volta che vengo a Bolzano, e sono passate due settimane dalla prima. Io spero di farcela. Per il momento, è ancora tutto in mano a mia moglie, però spero, col tempo, di avere la forza di volontà sufficiente per dire: “Non gioco”. Lo spero, perché secondo me è una questione di forza di volontà. Il gioco mi ha dato solo guai. Non mi ha dato niente di positivo, neanche il divertimento, perché era più la rabbia per aver perso che altro. No, non mi ha dato niente di particolare. Invece, il gioco mi ha tolto parecchio. Tanti soldi. Di tranquillità familiare non è che ce ne sia mai stata molta, ma è soprattutto sulle figlie che ha avuto una ripercussione negativa. Non saprei cose dire. L’ho praticato e, sì, mi ha procurato delle situazioni negative, però non posso ancora dire che lo odio, ma neppure che lo amo. Il gioco è qualcosa di più forte di te, che ti prende e che non sai regolare. È vero che mi ha procurato dei guai, ma parlare di odio… sì, forse a livello razionale, però irrazionalmente credo che sarei pronto a ricaderci. Agli altri dico: “Guai, guai, stattene alla larga! State lontani da quelle macchine infernali! Vorrei che si sapesse che il gioco è una malattia grave, dalla quale è bene stare lontani, se ci si riesce. Cos’altro aggiungere? Razionalmente, il gioco è un disastro, sia da un punto di vista economico che dal punto di vista sociale, per cui chi ne è fuori, ne resti fuori, chi ne è dentro… se ce la fa, ne esca”. La speranza c’è, perché ho avuto la forza di fare la scelta di consegnare i soldi a mia moglie e di farmi dare solo quella piccola somma che mi serve. In un futuro, col passare del tempo spero di essere capace di amministrarmi senza giocare… o, se non proprio senza giocare, almeno nei limiti di quelle piccole cifre che non disturbano né il bilancio familiare né i miei rapporti familiari.

Appare evidente, da questa intervista ad Andrea, come egli non avesse ancora chiari i termini del suo problema. Dal suo punto di vista, il problema veniva inquadrato esclusivamente da un punto di vista economico: ad esso egli faceva risalire tutti i problemi di tipo familiare e sociale, prendendo solo marginalmente in considerazione l’aspetto comportamentale della situazione. La soluzione dei problemi, pensa Andrea, era già stata raggiunta nel momento in cui egli aveva consegnato il bancomat e le carte di credito alla moglie: “Per fortuna ha funzionato”, afferma dopo solo due settimane di astinenza. Sono evidenti, inoltre, le resistenze che egli pone, nel momento in cui si tratta di analizzare le sue emozioni e le sue sensazioni nei confronti del gioco: “Quando perdevo attribuivo la colpa a questo, a quello…” e poco dopo afferma: “Non davo la colpa, come invece molti fanno, agli impiegati o al croupier quando perdevo”. È inoltre molto evidente il tentativo di mostrarsi freddo verso il gioco (“non mi interessava l’emozione”; “ero contento di aver vinto, ma non ricordo di aver provato un’eccitazione particolare”), tranne poi contraddirsi, parlando di rabbia verso il gioco, e arrivando addirittura ad utilizzare verbi quali “amare” ed “odiare” per chiarire il suo rapporto con il gioco. Le aspettative, che egli pone verso una terapia, sono del tutto inadeguate alla realtà. Esse si concentrano nuovamente solo sulla soluzione dei problemi economici e sulla possibilità di tornare a giocare. La resistenza verso la terapia è del resto palese, quando Andrea afferma di aver risolto già da solo il problema (consegnando il bancomat alla moglie) e di non aver troppa fiducia negli altri.

Andrea, attualmente, è un giocatore in fase attiva. Ha rifiutato di intraprendere una terapia presso il centro, adducendo le scuse ora descritte. Dopo alcuni ulteriori giorni di astinenza dal gioco, si è fatto riconsegnare il denaro dalla moglie, anche se, vista la distanza dai casinò e la limitatezza delle risorse economiche, ha rivolto la sua attenzione ai giochi di carte e alle corse dei cavalli.

2° STORIA

Testimonianza di Gabriele:

Mi chiamo Gabriele, ho 25 anni e mi trovo in cura presso la S.I.I.Pa.C per problemi legati al gioco d’azzardo. Fin da quando ero piccolo, sono stato un ragazzo molto intelligente, allegro e pieno di sogni da realizzare. Tutte caratteristiche della mia personalità che, nonostante dei periodi bui e delle vicende a dir poco auto-distruttive, ho cercato di mantenere nel tempo. Tuttavia, non sempre ci sono riuscito.

La mia storia con il gioco d’azzardo, inizia più o meno a 15 anni quando cominciando a frequentare bar e sale giochi, mi confronto con le, ahimè, famose slot machines (videopoker). Giocavo, saltuariamente, solo quando avevo qualche soldo in più e solo allo scopo di vincere quelle venti o trenta mila lire per poter passare qualche bella serata. Al tempo vedevo questo gioco come un innocente passatempo ma dello stesso avviso non lo erano i miei genitori, i quali mi sconsigliavano di giocare con quelle macchinette. Poiché io lo consideravo un gioco fine a se stesso, continuavo a giocare in modo sempre più assiduo ed aumentando magari le mie spese. Così cominciarono a passare gli anni ed i soldi a mia disposizione cominciano a diventare pochi per le mie esigenze di gioco. Cominciai a rubare qua e là in casa, dai portafogli dei miei genitori, a casa dei miei parenti. Se venivo colto sul fatto, mentivo spudoratamente inventando scuse e storie per giustificarmi. Le litigate in casa erano diventate all’ordine del giorno, e lentamente cominciai ad intuire che ero entrato in un circolo vizioso da cui non potevo uscire.

Ero diventato molto nervoso, avevo degli sbalzi d’umore molto forti e scatti d’ira. Inoltre, somatizzavo lo stress con crisi d’ansia. Stava diventando tutto troppo doloroso, e appena mi sentivo in difficoltà, mi precipitavo a giocare in maniera sempre più assidua senza potermi dare un limite. Ormai non giocavo più per vincere ma per potermi alienare da una vita troppo spesso confusa e dolorosa. L’apice lo raggiunsi nel 2008 quando alla fine dell’ennesima lite domestica decisi di andarmene e mi trasferii a Milano. Ma i problemi ovviamente continuarono ed inoltre, il mio disagio si accentuò ulteriormente.

Caddi in depressione, una grave depressione che mi portò ad assumere psicofarmaci. Inoltre, cominciai a bere in maniera spropositata. Il mio problema con il bere mi portò ad avere sempre maggiori ed intense crisi di panico. Tutto questo mio disagio mi portò a giocare sempre di più. Allo stremo delle forze psico-fisiche, decisi di tornare a casa e di intraprendere un percorso di psicoterapia per i miei problemi comportamentali e decisi anche di smettere di giocare andando al Ser. T Ma tutto questo non bastava. Al Ser. T venni informato del mio problema, ma allo stesso tempo non ero seguito come dovevo essere. Di conseguenza, ricaddi in quella che ormai era una “malattia necessaria”. Cominciai a scommettere e a giocare a poker spendendo somme ampiamente al di sopra delle mie possibilità. Tornai al mio circolo vizioso fatto di insoddisfazioni professionali, vita sociale scarsa e tanto gioco e alcool.

Ma grazie ad un gesto di amore estremo dei miei genitori nel Dicembre del 2009 mi ritrovo alla S.I.I.Pa.C per mettere la parola fine a tutto questo schifo che ha fatto tanto soffrire me e i miei così negli ultimi dieci anni.

3° STORIA

Testimonianza di Francesca:

Francesca, 34 anni, ha rilasciato questa intervista alla fine del suo programma terapeutico, durato un anno e mezzo, per un problema di gioco d’azzardo patologico. L’inizio lei lo descrive così:

“E’ difficile per me individuare con esattezza il momento in cui mi sono avvicinata al gioco d’azzardo. Senz’altro, il gioco d’azzardo, seppure in forma non patologica, è sempre stato presente nella mia vita. Quando ero piccola, mia mamma gestiva una pizzeria assieme a suo fratello e il sabato, per non lasciarmi sola, mio papà mi portava con sé a casa dei suoi amici, dove trascorrevano lunghe ore a giocare a poker. Era un’atmosfera affascinante: non giocavano grosse somme, era un hobby del fine-settimana, nulla di più, però era intrigante vedere questi uomini che aprivano la gara con un rituale ben preciso, ognuno con le sue piccole scaramanzie, il silenzio quasi religioso, che accompagnava questi momenti e il gergo fatto di parole quali passo, chip, buio, ecc. con il quale comunicavano tra loro.

Erano molto signorili nelle loro partite, era difficile vedere qualcuno che si lasciasse andare a qualcosa di più volgare, che non fosse il buttare le carte sul tavolo, deluso, quando il gioco a cui miravano non aveva avuto seguito. E poi, quando papà vinceva, una parte dei soldi finiva a me, il che non mi pareva assolutamente deprecabile. Io iniziai a giocare a carte verso i 18 anni, ma non mi dava la stessa sensazione che mi aveva dato vedere giocare mio padre: l’ambiente era diverso ed i miei compagni di gioco non possedevano la stessa signorilità di quelli di mio padre. Ed infatti, dopo alcuni anni, le mie giocate si diradarono fino a cessare del tutto. Nel frattempo, avevo incontrato il mio futuro marito, con il quale mi sposai all’età di venticinque anni. Eravamo un bella coppia, economicamente stabile. Grazie all’aiuto dei miei, io ero riuscita ad acquistare un negozio di abbigliamento che funzionava molto bene, mentre lui, ingegnere, aveva un lavoro che lo gratificava molto da tutti i punti di vista, sebbene lo costringesse a lunghe assenze da casa. Non mancava nulla. Figli per il momento non ne volevamo, ed eravamo visti da tutti come una coppia fortunata.

Il mio primo approccio con il casinò avvenne cinque anni dopo: avevamo deciso di seguire alcuni nostri amici che vi avevano programmato una gita. Per me, fu l’inizio di un’esperienza drammatica, ai limiti della sopportabilità umana. Mio marito quella sera, si dedicò alla roulette ma, razionale com’è sempre stato, credo che non avesse puntato più di cento mila lire. A me, invece, quel gioco non piaceva. Non mi piaceva la calca di gente attorno a quel tavolo, né l’esultanza eccessiva di chi aveva vinto. Provai con le slot machine. Mi incollai davanti ad una macchinetta, e non mi mossi più, fino a quando non venne mio marito a dirmi che tornavamo a casa. Non me n’ero accorta, ma ero rimasta a quella maledetta macchina per oltre quattro ore, ed avevo speso tutto il budget previsto per quella serata. Ero rimasta folgorata. Ricordo che, sulla strada del ritorno, mio marito mi prese bonariamente in giro dicendo che se non mi staccava da lì, ero capace di giocarmi anche il negozio. Purtroppo in quell’occasione, mio marito fu un buon profeta. Nei giorni seguenti, ripresi la monotonia del lavoro, con mio marito di nuovo in trasferta per tre settimane, il mio pensiero tornava spesso alle slot machine. No, non m’interessava assolutamente vincere: a me piaceva ricordare quel tempo trascorso davanti alla macchina, per il modo in cui ero riuscita a distrarmi dal solito tran tran quotidiano, per il modo in cui ero riuscita a dimenticarmi di tutte le preoccupazioni. E decisi di tornarci, da sola. Due sabati dopo la mia apparizione in un casinò, vi tornai da sola. Mi dicevo che, in fondo, era solo un modo per trascorrere la serata, in cui altrimenti non avrei avuto niente da fare. Però non lo dissi a mio marito. Quella sera, in otto ore davanti alla macchinetta, senza alzarmi nemmeno per andare in bagno, persi oltre un milione. Tornando a casa mi dissi che forse era un passatempo un po’ troppo costoso, ma in fondo, di soldi ne avevo più che a sufficienza, e non mi procurai eccessivi sensi di colpa. Purtroppo, da quel momento in poi, le mie uscite in solitaria al casinò divennero via via più frequenti. All’inizio con scadenza settimanale, poi ogni due o tre giorni. E perdevo sempre e sempre di più. Dopo sei mesi, iniziai ad avvertire i primi problemi di tipo economico. Il negozio rendeva ancora bene, ma le uscite erano eccessive. Iniziai ad incolpare di questo fatto il mio ignaro marito, sostenevo tra me e me che se lui avesse trascorso più tempo in casa, io non sarei stata costretta ad andare a giocare, però quando lui non era costretto ad assentarsi per lavoro, mi dava fastidio che io non potessi andare al casinò. Mio marito scoprì tutto in un colpo. Avevo imparato a non portare con me il bancomat o la carta di credito, quando andavo a giocare. Lo avevo fatto alcune volte, ed avevo veramente perso troppo. Così una sera uscii per andare al casinò. Non avevo abbastanza benzina per fare andata e ritorno, e mi ero ripromessa di fare rifornimento all’andata. Ma la voglia di raggiungere la mia meta era troppa e decisi quindi di fermarmi al ritorno. Come succedeva ormai da parecchio, anche quella sera persi tutto quello che avevo con me. Tentai lo stesso di raggiungere casa, ma ad un certo punto la macchina si rifiutò di continuare. Ero sola, senza soldi, in mezzo ad una strada di montagna (non avevo potuto prendere l’autostrada perché non avrei avuto modo di pagarla), così non mi rimase altra alternativa che chiamare una mia amica col cellulare, alle quattro del mattino, chiedendole di venirmi a prendere. Dovetti per forza di cose, spiegarle come erano andate le cose. Due giorni dopo, mio marito era al corrente dell’accaduto e vi fu una violenta litigata. Volle vedere tutti i conti del negozio. Io, dapprima rifiutai poi, di fronte alla sua fermezza, acconsentii. Lui fu preso da un sussulto. Mancavano all’appello 67 milioni! Dopo la sua sfuriata, gli chiesi di aiutarmi, di starmi accanto e promisi che non avrei mai più giocato. Fui convincente ed effettivamente, per un periodo di due mesi, non misi più piede al casinò. Un’altra lunga assenza da mio marito, però, fu la scusante che riuscii a trovare con me stessa per tornare a giocare e da quel momento riprese tutto come e peggio di prima. Il negozio non funzionava più come prima: io la mattina marcavo sempre visita, non m’interessavo più dei rapporti con i fornitori ed iniziai a lasciare insolute alcune fatture. Tre mesi dopo, in seguito alla telefonata di un creditore, mio marito venne a conoscenza della mia reale situazione. Questa volta, gli dissi che i soldi erano miei, che ne facevo quel che volevo e che comunque, se giocavo, era solo colpa sua. Il nostro rapporto s’incrinò notevolmente. Io giocavo, perdevo e lui era spesso assente. Passarono altri sei mesi e lui decise di separarsi. Nel frattempo, io avevo impegnato il negozio. Ormai, non perdevo meno di un milione e mezzo a sera, ma a volte andavo anche oltre. Ad un certo punto, fui costretta a vendere il negozio, per fare fronte ai debiti. Mi ritrovai sola, disperata ed iniziai a pensare seriamente al suicidio.

Il 2 dicembre del 1996, dopo aver collegato un tubo alla marmitta della mia automobile ed averne inserito un’estremità nell’abitacolo, mi sedetti al posto di guida, decisa a farla finita per sempre. È solo per un colpo di fortuna se oggi sono ancora viva. Una mia amica aveva deciso di farmi un’improvvisata e fu attratta dal rumore del motore che veniva dal garage. Fu lei a chiamare i vigili del fuoco ed ambulanza, che mi salvarono la vita. Mentre ero ancora ricoverata nel reparto di psichiatria dell’ospedale, mio marito, tramite un suo collega di lavoro, era venuto a conoscenza di un centro di recupero per giocatori patologici a Bolzano. Mi propose di andarci assieme, di aiutarmi. Io accettai, più per inerzia che per convinzione. Fu un ritorno alla vita. Il fatto di essere considerata una donna ammalata, e non viziosa, di non essere giudicata, di poter buttare fuori tutto quello che avevo dentro, di essere sottoposta ad un controllo economico, di aver conosciuto altre persone come me, ebbene, tutto questo mi fece capire che avrei potuto farcela. Non è stato facile per niente. Ci sono stati dei momenti in cui la voglia di giocare era tremenda, assillante e solo la vicinanza di queste persone mi ha impedito di ricadere. Ho seguito scrupolosamente tutto il programma terapeutico accompagnata da mio marito. Oggi, so che non potrò recuperare quanto ho perso, il negozio se ne è andato per sempre, ed io mi sono adattata a fare la commessa. Però, so anche che ho un futuro davanti a me, che non c’è più il buio tremendo della disperazione, che è sparita l’ombra del cupo suicidio. Il gioco mi ha riempito tanti momenti vuoti della mia vita, mi ha tolto le responsabilità, che non volevo prendermi, mi ha dato stati di eccitazione, che altre persone forse non riusciranno mai a provare in vita loro. Ma nulla di più.

Il gioco mi ha tolto cinque anni di vita, mi ha tolto mio marito. Sì, mi ha tolto anche un mucchio di soldi, ma quei soldi, oggi rispetto al resto, sembrano niente. Il gioco mi stava togliendo anche la vita, è solo un caso se non c’è riuscito. Io oggi odio il gioco, lo detesto profondamente. E mi arrabbio moltissimo, quando penso che nessuno fa niente per le persone come me, se si esclude il centro di Bolzano. Ci hanno dato in mano un giocattolo pericoloso, dicendoci che era innocuo, senza avvertirci, che poteva esplodere. E quando questo esplode, si voltano tutti dall’altra parte. Ma bisogna dirlo, che può essere pericoloso, che bisogna stare attenti. Quanti suicidi e quante tragedie bisogna ancora aspettare, prima che la gente capisca queste cose?

La storia di Francesca, è una storia tipicamente femminile. Francesca, dopo essere entrata in trattamento non ha mai più giocato. Oggi, vive la sua vita con maggior libertà e con una forza straordinaria. Due mesi dopo aver rilasciato questa intervista, Francesca e suo marito hanno deciso di tornare a vivere insieme.